Dolly Parton, foto presa dal Web
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Argentina, terra dei gauchos, terra del tango, terra della Pampa sconfinata, ma … anche terra terra.
Così mi sono sentito quando ho fatto la grezza (gaffe o figuraccia) in un grande e importante negozio di pelletteria di Puerto Madrin, una piccola cittadina della penisola Valdes in Argentina.
Ma iniziamo dal principio.
La storia è di quelle strappalacrime in cui un giovane molto giovane di 23 anni, da poco assunto in Alitalia parte per andare a visitare suo zio in Sud America. Era il 1980. Era il suo primo viaggio e nonostante fosse attratto da località ben più idonee alla sua età (vedi Rio de Janeiro), ritenne giusto far felice suo papà che voleva tracciare un collegamento con quel suo fratello che viveva da trent’anni in terre lontane.
“Dagli Appennini alle Ande” mi sono veramente calato nella parte.
Le mie disavventure iniziarono a Fiumicino. Arrivai all’aeroporto con almeno due ore e mezzo di anticipo perché così mi avevano raccomandato i colleghi anziani essendo io possessore di un biglietto frì (free) quello vero senza sei percento per capirci.
Mi trastullai sfogliando gratis le riviste al giornalaio e guardando poi negozi, passeggeri, poliziotti, baristi, trolley e valigie…ma anche hostess e impiegate di scalo, insomma tutta quella fauna femminile propriamente aeroportuale che da sempre ha dato lustro al cosiddetto fascino della divisa.
Finalmente mi presentai al check-in. Dietro di me una discreta coda di persone. Porsi con un sorriso il biglietto alla gentile collega e alla sua richiesta di favorire il passaporto, automaticamente la mia mano destra lo cercò nella tasca interna sinistra della giacca.
Non c’era.
Cercai il documento nell’altra tasca senza successo e mentre il sorriso mi si spense miseramente in bocca, iniziai un’auto palpeggiamento per ogni parte del mio corpo. La collega abbassò gli occhi cercando di nascondere ilarità mentre nel frattempo le persone dietro di me aumentavano e rumoreggiavano. L’imbarazzo era totale. Chiesi venia spostandomi dalla fila ormai mezzo spogliato. La terribile verità, quella che mai avrei voluto accadesse era che avevo dimenticato il passaporto a casa e che mancava poco tempo all’imbarco.
Ci si dimentica sempre qualcosa a casa prima di partire, ma porca miseria è inconcepibile che ci si dimentichi proprio il passaporto.
Era tardi, circa le 23.00. Telefonai a casa e supplicai mio fratello che nel frattempo era in braccio a Morfeo, di correre, di volare da me con il documento.
Nonostante i quaranta chilometri mi raggiunse appena in tempo e così riuscii finalmente ad imbarcarmi sul diccidieci.
Presi posto cercando di darmi un tono dopo quello che era successo. L’aereo non era affollato e quindi mi accomodai su una poltrona in una fila completamente libera prevedendo di allungarmi e poter dormire durante tutto il viaggio.
Ma la mia fu solo un’illusione. Una signora, non proprio giovanissima, alla Dolly Parton1 per intenderci, vestita con dei pantaloni argento metallizzati, corpetto verde brillante teso a racchiudere dentro di sé un corpo non più da pin-up che a mio parere viveva un delicato equilibrio: la sua parte alta anteriore era perfettamente bilanciata con la parte bassa posteriore, occhi truccati alla Mina nel suo massimo splendore, capelli color platino e con alle dita una miriade di anelli luccicanti ma dichiaratamente falsi.
Prese posizione proprio nella fila centrale di fianco a me. Sbattendo le sue ciglia lunghe qualche centimetro, mi lanciò uno sguardo marpione e mi fece un largo sorriso tradendo la presenza di un molare d’oro.
Contemporaneamente e sconsolatamente, incrociai gli occhi dello steward che con sguardo divertito, sembrava dicesse “auguri, ti vedo e ti piango”.
Mi allacciai le cinture assicurandomi che l’indigena facesse altrettanto come se queste avessero il potere di tenerla incatenata dove si trovava quasi ad evitare eventuali assalti notturni.
Finalmente l’aereo decollò e iniziai quello che fu veramente un lungo viaggio.
Dopo lo scalo tecnico a Dakar, allora non era dovuto al rifornimento del carburante, iniziammo la trasvolata atlantica con una situazione meteorologica certamente non delle migliori. Il cielo era nero come l’inchiostro. Ci imbattemmo in un temporale con relativi fulmini e saette e conseguenti sballottamenti in cabina.
Il segnale “fasten seat bealts” era acceso e i passeggeri si guardavano preoccupati. Anche la nostra appariscente signora aveva perso quell’aria della serie tutta io e niente gli altri lasciando spazio ad un viso terrorizzato che non lasciava intuire niente di buono. Mi resi conto che nell’aria si stava disperdendo una miscela di gas evidentemente originante da chissà cosa la donna avesse ingerito e il suo intestino avesse metabolizzato, fatto sta la produzione di flatulenze fu tale che intorno a lei, per un tempo indefinibile, si creò il vuoto. Ma comunque non mi persi d’animo e fu così che, indossato i panni del dipendente della Compagnia che aveva il dovere di essere sempre disponibile ad aiutare chi ne avesse bisogno, mi sedetti vicino a lei per cercare di tranquillizzarla.
Mai errore fu più grave.
La donna mi si abbarbicò addosso balbettando parole incomprensibili e fui stordito dal suo profumo “eau d’ascelle” peraltro mescolato agli odori precedentemente descritti. Scoprii poi che era sudamericana, argentina per la precisone e che si chiamava Carmen.
Il terrore era ormai dentro di lei e lo manifestava incollandosi a me e stringendo le mie mani con le sue sudaticce. Mi supplicava di starle vicino, mi accarezzava il viso e piagnucolava cercando con i suoi occhi sicurezza nei miei.
Credo che quella fu l’unica volta che in vita mia mi sono sentito un eroe, non tanto per quanto stessi facendo per trasmetterle calma, ma per quanto stessi subendo non solo per le “ventilazioni” che si susseguivano senza soluzione di continuità, ma anche perché di tanto in tanto, erano anche associate al caratteristico suono che le caratterizzano.
Cercai aiuto nell’assistente di volo che nel frattempo passava di lì guardandosi bene dall’intervenire.
Lo invitai però con piglio deciso, ad occuparsi della situazione perché la Carmen era ormai in preda al panico. Lui dapprima con dolcezza e poi con maggiore fermezza cercò di placare la donna, ma lei, con rapidità e destrezza lo abbrancò stringendolo a sé come fosse un orsacchiotto di peluche. Perdette subito quel fare calmo e sicuro di sé proprio di chi è lì soprattutto per trasmettere sicurezza e cercò disperatamente di districarsi da quelle braccia flaccide, che sembrava quasi volessero stritolarlo. Venne anche un altro passeggero in soccorso, un uomo grasso e pesante, e in realtà, non so quanto fosse animato da reali sentimenti di aiuto, visto che i suoi piccoli occhi porcini racchiusi in una faccia tanto larga quanto lunga, erano intenti a fissare le strabordanti abbondanze della donna.
Finalmente ma faticosamente, riuscii a districarmi da quell’ammasso di corpi, di odori, e di suoni sgradevoli, dileguandomi in fondo all’aereo e ripromettendomi di non muovermi più sino all’arrivo a Buenos Aires.
Atterrammo ad Ezeiza. Mentre eravamo ancora in cabina pronti per raggiungere l’uscita, con fare prudente ma nello stesso tempo svelto e deciso, mi mischiai tra i passeggeri allontanandomi dalla tizia, che nel frattempo intorno a sé, aveva creato il vuoto. Il clou si determinò quando alzatasi in piedi, alzò le braccia per aprire la cappelliera dove era riposta una sua borsa a mano. Lo fece in corrispondenza di una bambina dall’apparente età di due o tre anni in braccio al suo papà, la quale, investita dai miasmi provenienti non solo dalle braccia ma da tutto il corpo di Carmen nel suo insieme, ebbe un repentino cambio di colore del viso. Impallidì visibilmente e balbettò un’esclamazione in spagnolo “oh dios mio, cómo apestas”, tant’è che il papà, guardato dai passeggeri intorno a lui con aria spassosa, non perse tempo ad allontanarsi non dimenticando però di rimproverare la povera bimba per l’esclamazione inopportuna.
Finalmente lasciammo l’aereo, varcai il controllo passaporti e raggiunsi il tapis roulant per recuperare la valigia. Mentre cominciavano ad arrivare i primi bagagli, notai dalla parte opposta del tappeto mobile Carmen (impossibile non notarla), isolata sia a destra che a sinistra dagli altri passeggeri e che m’inviava insistentemente risolini inequivocabili e sguardi eloquenti, i quali non potevano non provocare in me un certo imbarazzo tra le occhiate divertite di tutti gli astanti.
Non mancò il solito passeggero di Roma, che evidentemente aveva visto di cosa fui protagonista durante il volo, il quale, con fare tracotante e beffardo urlò: “’a pischè….daje che hai rimorchiato, nun te perde quest’occasione che sennò quanno te ricapita”.
Le risate furono fragorose, sembrava di essere al Bagaglino dei tempi d’oro e infatti pensai: “come sempre queste occasioni se a qualcuno dovevano capitare, il prescelto ero sempre io”.
Comunque grazie al cielo, il mio bagaglio fu tra i primi ad arrivare e ciò determinò finalmente, la mia uscita di scena da quella situazione.
Vidi in lontananza un telefono pubblico e quindi feci per raggiungerlo con passo svelto per avvertire mio zio Peppino per avvertirlo che da lì a poco, avrei dovuto prendere un aereo domestico per raggiungerlo a Trelew.
Contemporaneamente altre persone raggiunsero il telefono prima di me e quindi non mi rimase che mettermi doverosamente in fila ad aspettare il mio turno. Dopo circa quindici minuti potei chiamare, ma mi resi conto di avere difficoltà perché evidentemente non avevo capito il sistema per fare delle telefonate interurbane. Fu così che mi si avvicinò una signora di bell’aspetto, la quale vedendomi in difficoltà e capendo che ero straniero, si prestò molto gentilmente di aiutarmi. La ringraziai della premura, anche se dentro di me, memore dell’esperienza avuta poco prima durante il volo, cercai di essere molto “neutro”, diciamo in antitesi con il mio naturale modo di essere che è tutt’altro che asociale. Provammo più volte a chiamare ma evidentemente c’era un problema di linea che non permetteva comunicazioni con la provincia del Chubut.
Dopo l’ennesimo tentativo andato a vuoto, mi resi conto di aver perso il senso del tempo e anche di aver perso il volo che mi avrebbe portato nel sud dell’Argentina per poter finalmente abbracciare mio zio. Ero nei guai perché i voli non avevano frequenza giornaliera e quindi sarei potuto ripartire soltanto dopo due giorni. Mi preoccupai, in fondo era il mio primo volo, nondimeno dall’altra parte del mondo ed ero giovanissimo. Peraltro le esperienze sino a quel momento non erano state da sottovalutare e quindi, francamente non sapevo proprio cosa fare. Pensai, anche in considerazione del denaro che avevo con me, di evitare di andare in un albergo a Buenos Aires e quindi mi preparai a trascorrere la notte su una delle panchine dell’aeroporto, sempre se mi fosse stato permesso.
Fu così che Amanda, la signora che si prestò di aiutarmi a chiamare mio zio, mi fece una proposta che mi lasciò perplesso.
Mi chiese se avessi voluto andare a casa sua a trascorrere la notte e il giorno successivo, dove c’era suo marito, che era sulla sedia a rotelle a causa di un’artrite cronica che lo aveva colpito alle articolazioni e due suoi figli di età adolescenziale. Mi avrebbe poi ricondotto in aeroporto il giorno in cui era previsto il volo per permettermi di partire.
Lei era lì perché tornava da Francoforte dove era stata a fare visita alla figlia che studiava in Germania. Mi disse che Consuelo, la figlia, aveva la mia stessa età e che saperla in quel Paese così lontano, le procurava apprensione. Quindi era ben felice di aiutare me, perché così facendo rafforzava in sé l’idea che se anche lei si fosse trovata in difficoltà in un luogo a lei non familiare, avrebbe potuto trovare qualcuno in grado di aiutarla. Questa cosa mi tranquillizzò, benché devo ammettere che l’idea di trovarmi davanti ad una MILF che volesse “approfittare” di me non mi lasciava completamente. Ma ormai ero in una situazione critica ed io avevo bisogno di affidarmi a qualcuno di cui potessi avere fiducia, pertanto accettai sperando che tutto potesse andare per il meglio.
Prendemmo un taxi e superato un fitto cordone di guardie armate che circondava l’aeroporto, ci dirigemmo a Olivos una cittadina residenziale a poco più di 15 chilometri da Buenos Aires.
Conobbi così Gerson il marito di Amanda. Un tipo simpaticissimo, sapeva del mio arrivo perché la moglie lo aveva avvertito telefonicamente e mi rivolse mille carinerie. Notai subito che le pareti della casa, un villino tutto sommato modesto, erano tappezzate da fotografie e dipinti di Che Guevara e capii subito il personaggio con chi avevo a che fare. Lui non era molto anziano ma era in pensione a causa della malattia che lo aveva colpito. Aveva lavorato per tanti anni come scenografo al teatro Colon di Buenos Aires ed era un eccellente disegnatore, tant’è che mi fece vedere tanti suoi bozzetti di scena veramente mirabili. Compresi quindi che i dipinti del Che erano tutte sue creazioni. Disquisimmo amabilmente di politica, voleva capire come fosse la situazione in Italia. Gli spiegai che quelli erano anni difficili anche da noi. Dopo l’uccisione di Moro avvenuta due anni prima, Piersanti Mattarella Presidente democristiano della Regione Siciliana che stava tentando di costituire una giunta con la partecipazione del PCI, venne massacrato in un attentato mafioso. E le Brigate Rosse erano ancora attive, tant’è che anche Vittorio Bachelet vicepresidente del CSM e docente universitario, fu assassinato per loro mano all’interno dell’Università “la Sapienza” di Roma. Insomma non gli esposi un quadro edificante. Lui scuro in volto mi parlò di Videla, il presidente reazionario in carica diventato ormai famoso in Argentina per gli omicidi dei desaparacidos, cioè tutte quelle persone che furono arrestate per motivi politici e delle quali si persero in seguito le tracce. Lui stesso rischiava molto per le sue idee marcatamente di sinistra e mi venne spontaneo chiedergli se non ritenesse pericoloso esporsi così come lui appariva.
Mi guardò con aria benevola e mi citò in spagnolo una delle frasi più famose del grande rivoluzionario argentino:” Siempre poder sentir en lo más profundo cualquier injusticia, cometida contra cualquiera, en cualquier parte del mundo” che tradotto ““Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia, commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo”.
Rimasi sbalordito dalla sua serenità interiore e nello stesso tempo della forza che traeva origine dal forte convincimento nelle sue idee. Non ho difficoltà ad ammettere che quei momenti furono determinanti nel rafforzare i valori in cui già credevo e la sensazione che avevo, era quella di sentirmi a casa, in famiglia, protetto da un sentimento vero, autentico.
Era quasi ora di cena e tornarono a casa Ernesto e Isabella, gli altri due figli della coppia. Come tutti gli adolescenti, quasi non si accorsero di me per quanto fossero presi dalle loro cose, ma poi si aprirono piacevolmente ed erano curiosi di sapere come vivessero i ragazzi della loro età in Europa. Nel frattempo Amanda aveva preparato la cena presentando a tavola delle invitanti empanadas e tortillas che rallegrarono la serata.
Ormai era tardi e francamente sia Amanda che io, reduci del lungo viaggio dall’Europa, eravamo veramente stanchi, quindi dopo aver gustato un Mate con Gerson che peraltro non si fece mancare di fumare anche un corposo cubano, andammo a dormire.
Il giorno successivo, dopo aver accompagnato i ragazzi a scuola, Amanda e Gerson vollero portarmi in centro a Buenos Aires per farmi visitare la città. Non mancammo di visitare il teatro Colon perché lui ci teneva moltissimo. Era una struttura magnifica e monumentale, acusticamente considerato tra i migliori del mondo dove le opere liriche trovavano in quel luogo la loro sede naturale. Gerson ci tenne a dirmi che furono Tamburrini e Meano due architetti italiani a costruirlo e lui di questo ne andava fiero.
Il tour della città durò tutto il giorno, visitammo Plaza de Mayo, la Casa Rosada e non mancammo di andare nella zona intorno al porto chiamata “La Boca”, un quartiere animato dai suoi edifici vivacemente colorati e decorati da bandiere, statue e manichini. Qui si trovavano tra i più vecchi club di tango ed era frequente vedere per strada ballerini provetti cimentarsi nella danza più famosa del mondo. Uno spettacolo indimenticabile.
Anche quel giorno volse al termine e la sera dopo aver cenato, potei finalmente chiamare lo zio che preoccupato non aveva avuto più mie notizie da diverso tempo. Amanda e Gerson mi concessero anche di chiamare in Italia per rassicurare i miei e così dopo aver abbracciato con molta forza e trasporto coloro che mi avevano ospitato così amorevolmente, il giorno successivo con una compagnia aerea interna, raggiunsi finalmente mio zio all’aeroporto di Trelew nella Penisola Valdes.
La felicità di vedermi fu immensa e organizzò una festa in onore dell’”italianito” arrivato da lontano nella piccola cittadina di Puerto Madrin. Partecipò gran parte della popolazione. Lui localmente era una persona importante perché era il titolare di una mensa che forniva i pasti ai dipendenti della Aluar, la più grande fabbrica di alluminio dell’Argentina.
Fu così che decise di regalarmi qualcosa che rappresentasse il ricordo di quel viaggio. Visto che in Argentina la produzione di pellame è considerata una dei prodotti nazionali più importanti, andammo presso un grande negozio per acquistare un giubbino, accompagnati dall’autista e al seguito da altre persone facenti parte della sua corte. Tra gli accompagnatori mi incuriosì un tizio dall’aspetto improbabile. Alto e fascinoso, sulla cinquantina, con dei baffi neri e sottili tenuti orizzontali da un eccesso di brillantina con la quale aveva impomatato anche i capelli. Aveva degli occhi blu attorniati da evidenti borse che, evidentemente, gli conferivano un’aria vissuta e languida. A mio modo di vedere, assomigliava ad un pesce lesso. Fu qui che, come ho preannunciato all’inizio, mi resi protagonista di una colossale gaffe nei confronti della signora, tra l’altro proprietaria del negozio, che venne ad illustrarci i vari modelli in vendita.
Mi presentò diversi capi ma rimasi particolarmente affascinato da uno per il quale mi sperticai nell’esaltarne le doti sia sul piano della qualità che sul taglio del modello. Mi espressi dicendo:” Questo modello è veramente bello ed è conciato bene. Sì, direi proprio che ha una bella concia”. Insistei più volte con questo termine al fine di voler indicare l’ottima lavorazione della pelle di quella giacca.
Mi accorsi contemporaneamente che le persone intorno a me avevano tutte una faccia strana e perplessa, con particolare riferimento al “Rodolfo Valentino de noantri” e alla signora che gentilmente si adoperava per fornire ampia possibilità di scelta tra i capi che aveva a disposizione. Dalle loro espressioni e sospiri strozzati ne intuii l’evidente tresca mentre io peraltro continuavo imperterrito a parlare con lei e a sottolinearne l’ottima “concia” dei modelli che mi sottoponeva. Il mio spagnolo era maccheronico e quindi inframmezzavo questa parola tra un muy bueno, un muy lindo ed un muy gradito. La signora ormai con il viso di tutti i colori e evidentemente turbata, si congedò chiedendo scusa e si allontanò in tutta fretta, mentre “er pomata” visibilmente contrariato, sbatté ritmicamente i tacchi come dovesse improvvisare un passo di tango fissandomi negli occhi con uno sguardo poco rassicurante.
Mio zio, anche lui palesemente imbarazzato m’invitò a scegliere velocemente il capo e ad andare via.
Più tardi mi spiegò che la parola “concia” in spagnolo argentino, era il modo più volgare, ma che dico triviale, per indicare quell’oggetto di desiderio che nella filosofia Tantra costituisce sin dall’antichità il primo caso di adorazione: “l’organo sessuale femminile”.
La cosa più grave era che io quella parola la ripetevo spesso, apprezzandone la bontà, decantandone la morbidezza, goderne al tatto la squisitezza e deliziandone il dolce profumo, e tutto questo proprio nei confronti di quella signora che con modi gentili e cortesi era lì ad offrire tutta la sua disponibilità.
Bene, oggi ci rido, ma vi assicuro che allora mi sarei sotterrato per l’approccio non certo felice che quel giovane di belle speranze che, attraverso quel primo viaggio, si affacciava timidamente al mondo.
Questo ed altro è quello che capita a noi italiani, tanti Mr. Bean, spesso vittime involontarie di equivoci che, come in questo caso, hanno risvolti umoristici. Della serie non prendiamoci troppo sul serio…
- Dolly Rebecca Parton (Pittman Center, 19 gennaio 1946) è una cantautrice, musicista, attrice, paroliera, imprenditrice e filantropa statunitense, celebre soprattutto per il suo contributo al genere country. ↩︎